Tra le opere più riuscite e interessanti di questa stagione, è un affresco sul mondo del precariato giovanile nel nostro paese e sull'incertezza rispetto al futuro, sull'isolamento che da esso derivano, "perché, anche sul lavoro, la malattia più terribile è la solitudine: se non è esperienza di relazione resta solo inciviltà. Aumenta il prodotto interno lordo, ma non la qualità della nostra vita" (Paolo Virzì).
"Call center e non solo. Questo film è stata l'occasione per raccontare lo spirito del tempo, la divaricazione tra cultura umanistica e i linguaggi contemporanei, la sottocultura televisiva divenuta l'estetica e l'etica di questi nuovi luoghi di lavoro". Così Paolo Virzì in calce al suo "Tutta la vita davanti", da ieri nelle sale.
Una commedia amara sulle difficoltà d'inserimento di una giovane neolaureata e un affresco corale sul precariato "psicologico" trasversale ai distinguo di classe e generazione.
Virzì ha preso spunto da "Il mondo deve sapere", libro di una scrittrice sarda, Michela Murgia, studente in teologia che per vivere è appunto finita a fare telemarketing. "L'idea è raccontare un’odissea burlesca e avventurosa nel mondo di una certa precarietà giovanile" ha spiegato il regista.
I contadini e gli operai in rivolta di ieri sono i lavoratori vestiti alla moda col telefonino di oggi, dai neolaureati costretti a fare gli operatori telefonici o i venditori porta a porta, ai quadri/dirigenti che, al di là dei rispettivi poteri apparenti, con loro condividono la medesima condizione di vessati e di precari.
E se Marta può ancora sognare un mondo migliore per sé e per la bambina cui fa da baby-sitter, un mondo che balla spensierato ascoltando i Beach Boys e si affeziona a una voce telefonica, tutto attorno resta un ritratto allarmante dell'Italia di oggi, che Virzì svela sapientemente sotto una patina di sinistra comicità.
"Call center e non solo. Questo film è stata l'occasione per raccontare lo spirito del tempo, la divaricazione tra cultura umanistica e i linguaggi contemporanei, la sottocultura televisiva divenuta l'estetica e l'etica di questi nuovi luoghi di lavoro". Così Paolo Virzì in calce al suo "Tutta la vita davanti", da ieri nelle sale.
Una commedia amara sulle difficoltà d'inserimento di una giovane neolaureata e un affresco corale sul precariato "psicologico" trasversale ai distinguo di classe e generazione.
Virzì ha preso spunto da "Il mondo deve sapere", libro di una scrittrice sarda, Michela Murgia, studente in teologia che per vivere è appunto finita a fare telemarketing. "L'idea è raccontare un’odissea burlesca e avventurosa nel mondo di una certa precarietà giovanile" ha spiegato il regista.
I contadini e gli operai in rivolta di ieri sono i lavoratori vestiti alla moda col telefonino di oggi, dai neolaureati costretti a fare gli operatori telefonici o i venditori porta a porta, ai quadri/dirigenti che, al di là dei rispettivi poteri apparenti, con loro condividono la medesima condizione di vessati e di precari.
E se Marta può ancora sognare un mondo migliore per sé e per la bambina cui fa da baby-sitter, un mondo che balla spensierato ascoltando i Beach Boys e si affeziona a una voce telefonica, tutto attorno resta un ritratto allarmante dell'Italia di oggi, che Virzì svela sapientemente sotto una patina di sinistra comicità.
Un'Italia dolce e amara quella di Tutta la vita davanti, che commuove e angoscia lasciandoci con un groppo in gola, come quell' ovosodo che non andava né su né giù.
Claudia Morselli
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